ARRIVEDERCI CASA TEGA! CIAO VERONA, A PRESTO!
C’è una foto in particolare che ha condizionato il mio immaginario, incastrandosi in un angolo della mente senza volersene più andare. Avevo sedici anni, divoravo avidamente le classiche riviste musicali che si trovavano in edicola, e in un numero speciale di Rolling Stone (su “I 50 momenti più importanti del Rock”) vidi uno scatto casalingo che mi illuminò. Saranno stati i colori, i sorrisi ebeti, le citazioni di una loro amica che accompagnavano la foto (tale Joni diceva che una sostanza di cui non voleva fare il nome rendeva i loro incontri più leggeri e divertenti), ma in quella immagine, in quella composizione totalmente spontanea, mi sembrava di capire perché quei dischi che mia madre ascoltava in macchina avessero una naturalezza che non trovavo da nessun’altra parte. Certo i Beatles avevano tavolozze di colori assolutamente strabilianti, i loro dischi erano dei veri caleidoscopi, certo Bob Dylan, come Battisti, con una leggera stonatura della voce ti faceva venire la pelle d’oca. E lo stesso Neil Young mi perforava ogni volta. Ma tutte queste meraviglie non avevano quella “cosa” inspiegabile che raggiungevano quelle voci quando cantavano assieme. Assieme. Solo assieme la raggiungevano.
Da allora, ogni volta che immaginavo la band di cui avrei voluto fare parte, mi vedevo con un gruppo di amici coi sorrisi ebeti, che cantavano assieme persi nelle loro armonie dentro cui nessuno prevaleva. Il suono era solo uno. Ma non mi immaginavo in uno studio classico. Quel suono si diffondeva tra le pareti di una casa, davanti al camino, in salotto e in cucina.
Pochi anni dopo questo sogno prese forma in una casetta in Lessinia, dove ci rifugiavamo nei fine settimana quando cominciammo l’università. L’atmosfera era magica, e ciò che creammo in quel salotto che dava sulla vallata di Vaggimal resterà per me sempre unico e irripetibile. Durò quasi sei anni, e ancora oggi mi sembra incredibile che i genitori di Pippo (bassista C+C) ci abbiano permesso di usare la loro casa di montagna per dei periodi così lunghi. Tra il 2014 e il 2015 addirittura ci passammo su svariati mesi, immersi nella nostra musica e di chi ci chiedeva di registrare la propria, scendendo solo per concerti ed eventi che organizzavamo in città. Ma appunto, quella casa non era veramente nostra. Andare via non fu così difficile.
Il periodo in cui terminò l’avventura di Vaggimal coincise anche con la ricerca di un nuovo appartamento in città. All’epoca io e Pippo cercavamo un posto qualsiasi dove vivere, venivamo da un appartamento di amici appoggiato alle colline delle Torricelle che dovevamo lasciare, e non avevamo idea di dove saremmo finiti. Per cominciare timidamente la ricerca feci un post su Facebook chiedendo qualche dritta. Mi scrisse subito un’amica dicendo che secondo lei la casa a fianco alla sua, al momento libera, faceva al caso nostro. Abitava in una corte nel quartiere di Veronetta, e quella casa per lei era “molto particolare”. In fondo a un vicolo cieco, dove mai mi ero inoltrato, bisognava oltrepassare un grande cancello di metallo verde incastrato dentro un arco in pietra. Ci si trovava in una piccola corte di campagna. In piena Veronetta, a dieci minuti a piedi dall’Arena. Salimmo con il padrone nella grande casa vuota. Tra soffitti alti quattro metri e affreschi del 1600 lo stupore non ci permise di capire che quella sarebbe stata la casa dove avremmo vissuto per sei lunghi anni.
I miei dischi preferiti nascono quasi sempre da esperimenti che non potevano prevedere il risultato (o proprio non lo cercavano), da calcoli errati o dal caso più assoluto. In un certo senso ho sempre vissuto con disagio e disinteresse l’ambiente del classico studio di registrazione. E per quanto spesso dentro questi luoghi vi abbia trovato grande passione (da chi li gestiva e chi vi operava) il fatto di doverci “lavorare” mi metteva ansia. Invece di guardare che microfoni erano montati, di che preamplificatori e che compressori disponevano, senza accorgermi cercavo subito in giro qualche elemento casalingo e personale per sentirmi a mio agio. Per molte persone un ambiente neutro come un laboratorio, o semplicemente estraneo, è l’ideale per non avere distrazioni e potersi dedicare unicamente alla creazione di qualcosa. Anzi, non avere distrazioni è una condizione fondamentale soprattutto quando si entra in un luogo che si ha prenotato e si sta pagando a giornata. Il tempo scorre, il conto sale. Non c’è tempo per fantasticare. E non ho dubbi che in un’ottica del genere questi ragionamenti non facciano una piega. Ma non è questo quello che stavo cercando.
Casa Pozza, che diventò solo negli ultimi due anni Casa Tega, non poteva che essere un luogo speciale. Tutto quello che portava dentro di sé, anche se completamente non arredata quando vi entrammo nell’ottobre 2015, era assolutamente ingombrante. Il suo vuoto aveva già un’energia spropositata, che io sentivo da lontano ogni volta che imboccavo la traversa di via Carducci e mi dirigevo verso il suo cancello. Sentivo che quel luogo era magico, e fino all’ultimo giorno mi sono meravigliato di viverci come la prima notte che vi dormii in sacco a pelo senza corrente perché l’allacciamento dell’Enel non era ancora attivo.
Una casa costruita nel 1100 doveva sicuramente aver accolto molte storie e le persone a loro connesse. Gli affreschi della nobile famiglia che l’aveva acquistata nel medioevo ne erano solo un piccolissimo segno.
Ci impiegammo anni a provare a capirla, a vivere i suoi spazi e a trovare la nostra dimensione all’interno di essa. Ma non ci preoccupava. Quella casa, quel luogo, in quel momento fermo nel tempo era finalmente “nostra” (solo in affitto eh!). Tanti, tantissimi coinquilini sono passati durante la nostra permanenza, con tutte le combinazioni possibili. E solo un anno dopo l’entrata iniziammo a fare le prove in quel salone immenso: 60 metri quadrati con soffitti alti quattro metri. Ovviamente fu Miles a spingerci a usarla come una vera casa musicale.
Senza accorgerci il luogo quotidiano del vivere coincise con il luogo dove potevamo essere creativi. In una stanza si cucinava e si mangiava tutti assieme, in un’altra si suonava e si registrava tutti assieme. Ad anni di distanza definire questo ciclo sembra semplice e ovvio, ma non fu per niente così. Trovare un equilibrio del genere è stato assolutamente lento e graduale. E mantenerlo è stato difficilissimo, come quando finalmente riesci a camminare su una corda sospesa nel vuoto. In quegli anni la Vita coincideva con la Musica. Ciò che si mangiava influenzava le canzoni e viceversa. Da allora, quando capimmo veramente cosa eravamo in grado di fare iniziammo a provare, provare, provare. E dal 2018 a registrare, registrare, registrare. Tre dischi dei C+C (uno ancora inedito), senza contare quello che ho registrato per conto mio, ciò che hanno registrato Miles, Gigi (ora chiamato Ticoy Kavei), Pippo, con le combinazioni più disparate.
Gli ultimi due anni di pandemia mi hanno imposto un rallentamento che avevo quasi dimenticato, ma che era già cominciato nel 2019 (semplicemente iniziai a suonare di meno perché avevo meno richieste). Non passavo così tanto tempo stabile a Verona forse dal 2010, prima che pubblicassimo il primo ep dei C+C. Dalla pubblicazione di “Singar” nel 2011 il ritmo che riuscimmo a prendere in un paio di anni fece sì che ogni fine settimana fossimo in giro da qualche parte per l’Italia (o l’Europa). Vedere sempre luoghi nuovi (anche se per pochi istanti, come troppo spesso obbliga il ritmo dei tour) rendeva il resto della settimana il momento in cui tornare in un luogo protetto per elaborare le esperienze vissute sulla strada, e così riposare, riflettere, scrivere, registrare, provare e ripartire ancora una volta verso qualcosa di nuovo. All’epoca non mi pesava minimamente vivere a Verona, e anzi, la voglia di condividere quell’energia e quelle esperienze ci spinse per anni a creare occasioni di scambio come festival e concerti in giro per la città e la provincia.
Quando questo ritmo iniziò a cambiare e mi ritrovai a dover rimanere nella mia città natale senza avere davanti un orizzonte di tour e concerti lontani, ho subito cercato un nuovo modo di vederla, di viverla. Ci inventammo un progetto chiamato “Deserto per Verona” e iniziammo a suonare ovunque, dal centro alla provincia, nelle situazioni più disparate ma accomunate dalla voglia di raccontare una comunità accogliente, aperta, multiforme e in evoluzione. Il progetto è stato meraviglioso, uno scambio di energia tra molte persone che si trovavano vicine ma spesso non lo sapevano, e forse ne avevano bisogno. Noi ne avevamo bisogno senz’altro. Poi iniziammo lo striminzito tour nazionale di “Deserto”, nel giro di qualche settimana arrivò la pandemia e il Mondo intero cambiò definitivamente.
Ho provato a vivere ciò che avevo attorno a me con occhi nuovi, senza preconcetti. Mi sono imposto di scattare un rullino di foto in giro per Verona come se non fosse la mia città. Non ci sono riuscito. Eppure mi bastava fare un giro fuori dalle mura natali e tutto mi sembrava così nuovo e ispirante. Mentre facevo il corriere in bici mi sono infilato tra vie del centro mai sentite nominare fino agli estremi della periferia, ma bastava la maleducazione della clientela (ahimè è così) a farmi passare la voglia di cercare poesia nascosta dietro qualche angolo. Ovviamente, come giustamente si dice, la bellezza è negli occhi di chi guarda.
Con Duck Chagall, al secolo Ambro (co-fondatore dei C+C), a fine 2020 abbiamo messo in piedi lo Studio TEGA, un effettivo studio di registrazione e una casa di produzione. Ho provato a deviare il corso di queste storie, questi dischi, questa vita in un nuovo progetto, ed è stato bellissimo vedere come sia partito, e che possa continuare ogni giorno nelle sapienti mani (ed orecchie) di quel grande produttore che è Duck. Il sorriso che aveva quando veniva le prime volte nella sua nuova regia in Casa Tega lo conoscevo bene. Come conoscevo lo stupore dei primi clienti che sobbalzavano appena entravano nella grande sala. Era lo stesso mio stupore, lo stesso di tutte le persone che vi sono entrate in questi sei lunghi e intensissimi anni.
René Daumal mi ha insegnato che per vedere le cose con una nuova prospettiva bisogna allontanarsene. Per avere una visione d’insieme, che è molto difficile da visualizzare quando ci si trova tra le vie del villaggio. Ecco perché bisogna salire sul Monte e guardare a valle.
Tutte quelle esperienze, quelle storie, rimangono lì, incastrate tra pietre millenarie e canzoni di dischi registrati come si cucina una torta. Lo Studio continua a vivere ed operare finché Duck Chagall ne avrà voglia, e la Casa si alimenta con le nuove persone che la abiteranno, attratte da quell’energia potentissima. Non vedo l’ora di poterci tornare con occhi e spirito rinnovati.
Adesso però devo immergermi in un luogo nuovo, un luogo dove mi sono sempre sentito accolto con sincera fiducia. Un luogo che non tenterò di capire, ammesso che sia possibile farlo. Questa volta non ci proverò nemmeno un secondo. Proverò a viverlo, e basta.
Nùgoro, 26 gennaio 2022
Foto:
1 - Crosby, Stills, Nash, Young & Dallas Taylor - di Barrie Wentzell, 1970 (a casa di?)
2 - Pausa pranzo durante le registrazioni di “Deserto” - di Pietro Poltronieri, marzo 2018
3 - Prove in Studio Tega - di Ana Blagojevic, dicembre 2021